Secondo i pubblici ministeri Alfredo Robledo e Francesco Cajani, Google avrebbe dovuto, trattandosi tra l'altro di un minore affetto da patologie, chiedere l'interpello al Garante prima di mettere online il video di scherno girato dai quattro ragazzini (già condannati a un anno di messa in prova presso l'associazione cui è iscritta la vittima, pena già scontata); inoltre, prima di inizare l'upload dei file, ogni utente dovrebbe avere a disposizione l'informativa privacy. Un'ulteriore ipotesi di reato formulata dalla procura è relativa all'articolo 167 del Codice della privacy, e cioè l'aver «tratto profitto, attraverso gli introiti pubblicitari degli inserzionisti», dal trattamento illecito dei dati personali del minorenne down (fatto punibile a titolo proprio con la reclusione fino a due anni).
In attesa del processo, fissato il prossimo 3 febbraio davanti al tribunale di Milano, l'accusa ritiene che il colosso informatico americano non abbia nemmeno «affrontato la problematica della protezione dei dati personali che sarebbero stati trattati in relazione a Google Video, che invece veniva volutamente lanciato come servizio di "libero accesso" dopo un'attenta analisi del mercato italiano». «L'essere arrivati a processo è un passaggio importante - dice il legale dell'Associazione ViviDown, Guido Camera, parte offesa nel procedimento - ma sia chiaro che non è, nelle nostre intenzioni, un processo a internet: si tratta invece di stabilire responsabilità omissive per un episodio che doveva essere evitato semplicemente applicando leggi esistenti e chiare». Se si arrivasse a condanna, la sentenza andrebbe a colmare un vuoto normativo attualmente presente nella legislazione italiana in tema di responsabilità nei casi diffamazione e rispetto della privacy su internet.
Nell'inchiesta sui vertici di Google la Procura ha aggiunto anche un episodio di «false dichiarazioni al Garante» rese nel novembre 2005 da un dirigente indiano, nell'ambito di un procedimento promosso da una donna circa il mancato aggiornamento dei propri dati rintracciabili nel motore di ricerca; procedimento che peraltro si era concluso con il «non luogo a provvedere».
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